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GLI EQUILIBRISTI
(LES EQUILIBRISTES)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 9 settembre 1991
 
di Nico Papatakis, con Michel Piccoli, Lilah Dadi (Francia, 1991)
"Il furto, l'omosessualità, il tradimento: ecco le mie tre virtù teologali", diceva Jean Genet nel 1953. Un anno dopo, l'autore per altro di genio de LES BONNES poteva mettere in pratica i suoi più o meno sani principi: affascinato da un giovane inserviente di un circo, l'algerino Abdallah Bentaga, e determinato a legarselo a sé con le cattive oltre che con le buone maniere, decideva di assecondarne la passione per il funambolismo (e, puntualmente, le tre opere di quegli anni s'intitolano LES NEGRES, LES PARAVENTS, LE FUNAMBULE). Ma alla seconda, rovinosa caduta del pur dotatissimo amico, amante e ormai discepolo finiva, come succede, per passare ad ulteriori interessi (nel caso, un seducente avanzo di galera, del quale cercherà di facilitare la carriera come corridore di formula uno). Con gran disgrazia del nostro misero equilibrista (al quale è dedicato il film) finito effettivamente suicida.

Di tutto ciò il regista francese di origine greca è stato più che testimone. Animatore in quegli anni di una boite a Saint Germain, Papatakis frequentò a lungo Jean Genet: "Uno come me che arrivava a Parigi con la sua rivolta personale non poteva non subirne l'influenza. Come scrittore, ma anche come rivoltato antisociale ed antifrancese, nella sua amoralità Genet era tutto di un pezzo, senza concessioni. Era a suo modo religioso, nel senso che voleva essere un martire del male, una sorta di Cristo della delinquenza. Era un mistificatore, ma un mistificatore sublime".

Ecco quindi che in LES EQUILIBRISTES vengono a sommarsi diverse forme di rivolta: quella del celebre scrittore a quel sentimento di esclusione, di emarginazione, di rivalsa che dovevano essere al tempo stesso della giovane vittima algerina come quella del regista considerato francese in Grecia, e greco nel suo paese d'azione. Felicemente, la prima parte della pellicola riesce a trascrivere questi sentimenti: Michel Piccoli (anche se rifà in parte il suo ruolo di artista-pigmalione dello splendido LA BELLE NOISEUSE) è al solito brillantissimo nell'interiorizzare le passioni, nel celarle nel profondo di quel suo corpo vigoroso che s'appesantisce nella stanchezza, nel svelarle con l'inconfondibile tono della voce , o l'arguzia tradita dallo sguardo. I suoi confronti con il bravo esordiente algerino che s'affanna più che brillantemente sulla corda si stagliano con fermezza nello stile saturato del regista, fatto un po' di reminiscenze fassbinderiane, e un altro po' di ricordi di teatro esistenzialista. Qui LES EQUILIBRISTES è per qualche tempo quello che avrebbe potuto essere: il ritratto, commovente e disperato, di una forma di potere. Quello della fantasia di un artista ormai stanco, forse ormai vuoto, alla quale non è rimasta ormai più che l'arma della seduzione, anche la più vile.

Ma a metà strada Piccoli-Genet scompare, tutto preso com'è dal suo nuovo corridore. Ed assieme a lui scompare il film: Papatakis fa del suo meglio per farci credere all'interessamento anche sessuale di una giovane signora di buona famiglia (a sua volta, precedentemente plagiata dall'irascibile, laborioso quanto volubile letterato) per il nostro Abdallah. Ma si sa come vanno queste cose: una volta presa per un verso, non è facile cambiar strada. Nemmeno al film: che ancora si occupa della strana madre, ex campionessa di catch dedita alla birra, oltre che fassbinderiana ella pure, fino al rogo generale.


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